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Archivio dell'autore: cescalita

Amara, divertente e commovente.

Questa è una storia d’amore e di musica. Di “alta fedeltà”: quella dei dischi, si, ma anche quella, ben più complicata, delle storie d’amore.

Rob Fleming ha 35 anni, un negozio di dischi fallimentare ed è appena stato lasciato. Di nuovo, e di nuovo non capisce perché.

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In sicuro e burbero, rintanato nel suo negozio nel nord londinese si arrovella su quesiti del tipo : “sono triste perché ascolto canzoni su cuori infranti oppure ho il cuore infranto perché ascolto musica triste? Cosa viene prima, la musica o il cuore infranto?”. Rob ha il pregio di essere straordinariamente divertente nei suoi tentativi, imbranati, di dipanare la matassa emotiva.

È un personaggio che non riesce a stare al centro del suo mondo…e qui sta il bello: sbanda continuamente e ci trascina con sé in una Londra vibrante, costellata da trentenni sognatori, al ritmo di tutta quella musica, nominata, citata, menzionata, che scandisce a meraviglia il ritmo del racconto (ho avuto la tentazione di tenere aperto youtube ogni volta che saltava fuori un titolo, ma le disavvenutre di Rob mi prendevano troppo per poterlo fare con calma).

Nick Hornby ha creato un libro scanzonato, diventato cult per i giovani degli anni ’90. Per quella “generazione X” un po’ sbandata, che magari, come Rob, ha lasciato l’università ed è rimasta al palo per non aver saputo – o voluto – scegliere una strada, sia emotivamente, sia professionalmente. Per paura di diventare qualcosa di definito.

Non a caso, i personaggi – specialmente uomini – non scelgono mai veramente nulla. Quello che fanno, invece, è stilare liste: le cinque migliori canzoni n.1 / lato A, le cinque più grandi fregature amorose, i cinque lavori da sogno che avrei voluto fare…

Le donne, invece, sono dipinte come un centro di gravità, per quanto misterioso.

Questo è un libro creato per relativizzare un ideale romantico e giovanile, un po’ autolesionista, e non avere più paura. E, perché no, anche per ascoltare (nuova) musica.

Sunset Park è una fotografia della società americana in crisi economica e, di riflesso, in crisi di valori. Protagonista è Miles. A fare da fil rouge, l’attesa riconciliazione tra lui e suo padre Morris, e in senso più lato quella di un’America con sè stessa e con l’ottimismo e la speranza che tanto la caratterizzavano.

La trama è semplice e le azioni compiute poco numerose…ma la forza di questo romanzo sta altrove: nell’introspezione dei personaggi, nel loro sondarsi, ognuno per conto proprio, mentre si sforzano di stare a galla in un’America impantanata.

Il pantano dei protagonisti si situa a Sunset Park, un quartiere middle-low class di Brooklyn. Lo sfondo è quello della recessione del 2008. Quattro giovani non ancora trentenni, precari eppure pieni di talento, sono impossibilitati dal realizzarsi personalmente a causa degli errori del passato, siano essi commessi da loro stessi o più in generale dalla società.

L’errore di Miles è quello di essersi sempre creduto colpevole della morte del suo fratellastro. Ha quindi lasciato gli studi universitari promettenti, la famiglia e New York. Ed ora eccolo tornato nella grande mela, per necessità più che per convinzione.

Miles, a corto di risorse, si ritrova con gli altri tre “sbandati” ad occupare una casa abbandonata, pericolante e fuori posto, anche in senso figurato, se si considera la casa in senso lato: nessuno  di loro ha un luogo dove si sente al sicuro, nessuno riesce pienamente a sbarcare il lunario. Auster li dipinge in quello che si potrebbe chiamare uno stato di presentismo: non pensano al futuro, perché le circostanze precarie li tengono incatenati in un presente dilatato.

La sensazione di stallo è rafforzata anche da una serie di morti improvvise. Quella di una coetanea di Miles, che suo padre ricorda come una giovane donna vestita di rosso pronta per il ballo di fine anno, metafora dell’America bella, giovane e piena di promesse…o ancora il decesso della nonna di Miles, una donna che apparteveva a quella generazione post-bellica semplice e ottimista…personaggi di un’America lineare e in netto contrasto con le incertezze, le complessità, le coincidenze e le assurdità del presente, sul quale i personaggi non esercitano nessun controllo.

Non c’è dunque speranza, in quest’america di Auster, quella speranza salvifica intrinseca alla riconciliazione sulla quale di basa l’interno romanzo?  Forse no, tanto che la riunione tra padre e figlio non può sanare totalmente gli errori del passato. Comprensione, perdono, amore non sono abbastanza.

Paul Auster tocca parte dei temi a lui più cari: vita ascetica, coincidenze e assurdo, perdita di benessere…e lo fa senza usare dialoghi diretti, quasi come avesse voluto prediligere una forma di scrittura scientifica, di distaccata osservazione dei personaggi, eppure descrivendoli in modo molto, molto umano.

Una scelta che narrativamente risulta un po’ pesante, tale che la prime 50 pagini risultano difficile da affrontare. Resistete.

Ha un messaggio, un significato, “Les grandes Ondes à l’Ouest”? Forse no. E in ultima analisi va bene così. Perché questa pellicola, nono lungometraggio del regista svizzero Lionel Baier, è una commedia fresca e divertente, piacevole da guardare per farsi due risate (in Piazza Grande si è riso parecchio) e allo stesso tempo quel minimo impegnata, tanto quanto basta per riflettere quel po’ e non tornare a casa con la testa vuota. Le Grandi Onde, infatti, è una storia ispirata da fatti realmente successi, dalla quale traspaiono spunti di scanzonata critica sociale e politica. Quasi caricaturale.

Siamo nell’aprile del ’74. La Svizzera…è la Svizzera. Le donne votano da appena 3 anni. La mentalità è paternalista. Berna si prodiga all’estero in progetti di aiuto allo sviluppo. La collaborazione con il Portogallo è “positiva anche se i portoghesi sono un popolo meno avanzato ma tutto sommato simpatico” (sì sì, queste le parole scelte provocatoriamente da Lionel Baier, “un megalomane scatenato”, stando a uno degli attori, Patrick Lapp).

“Bisgona parlare di cose positive” tuona un supponente consigliere federale svizzerotedesco a un capo della società svizzera di radiodiffusione. E così una troupe male assortita è inviata in Portogallo per un reportage sui progetti elvetici di aiuto allo sviluppo. Julie, giovane giornalista femminista e carrierista, Cauvin, navigato reporter di guerra con problemi di memoria, Bob, tecnico del suono prossimo alla pensione nonché autista sul suo Volkswagen Kombi, e Pelé, ragazzo portoghese col pallino del cinema francese e interprete improvvisato. La troupe incassa un buco nell’acqua dopo l’altro. Il reportage non avanza perché, di fatto, l’aiuto svizzero ai portoghesi è quantomeno inesistente. Fino a quando il gruppo, al limite della tensione e della frustrazione, si trova a sorpresa nel pieno della pacifica Rivoluzione dei Garofani.  E allora, il vero reportage comincia. In nome della disobbedienza civile e della democrazia, in barba agli ordini dei superiori che, preoccupati, chiedono loro di rientrare in Svizzera.

Una trama che consente al regista di giocare a fare lo storico che, senza prendersi troppo sul serio, va a rivangare la mentalità del passato, più che la storia stessa. E lo fa attraverso questo campionario di personaggi, pulsante, ben definito e inevitabilmente simpatico (tutte le interpretazioni convincono ampiamente, chapeau!), in un momento dove il cambiamento s’impone prepotentemente.

E così non è difficile non farsi sorprendere da scene altamente disinibite e autoironiche. Cauvin che sale su una tribuna improvvisata dai rivoluzionari per parlare della democrazia svizzera, senza riuscire a farsi capire. Julie che si rifiuta d’intervistare un portoghese ammiratore della Svizzera perché “il modello di ecologia elvetico ci salverà dal mescolamento delle razze”. Il gruppo che constata come l’aiuto fornito a una scuola cofinanziata da Berna si riassuma in un orologio swiss made e in miscelatori per lavandini, perché bisogna essere puntuali, pratici e precisi. Fino all’Aromat estratto a tavola, per dare quell’onnipresente gusto di casa, e alla borsa di carta della Migros, tesa dal consigliere federale al responsabile della radio per portarsi a casa i dossier sul Portogallo.

Ma sì, “Les grandes Ondes (à l’Ouest)” è una presa in giro. E funziona, perché offre uno spaccato di come eravamo, e di come (sia mai!) potremmo essere ancora. Ridiamoci su.

Quel che si finisce per ricordare non sempre corrisponde a ciò di cui siamo stati testimoni. Tony Webster, inglese in pensione, lo impara a sue spese, quando un evento inatteso lo trascina in un vortice che lo costringe a rivangare il suo passato e i ricordi della giovinezza.

Comodamente accomodato nel tramonto della sua esistenza, che lui stesso definisce “nella media”, il protagonista riceve in eredità il diario del suo brillante amico di gioventù, Adrian, morto suicida a vent’anni. Per Tony, entrare in possesso di quelle pagine assume una dimensione molto più significativa rispetto al desiderio di dare un senso alla fine di Adrian, fino a diventare una questione che si riflette sulla sua intera vita, sul tempo passato e sui ricordi.

Il ricordo non è infatti null’altro che una versione di ciò che ricordiamo di aver vissuto? Una fosca immagine del passato solo parzialmente illuminata dall’interpretazione che abbiamo deciso di associarvi?

Alla luce di queste considerazioni, Tony adulto ripercorre gli anni della gioventù, e lo fa mettendo in guardia il lettore: la vita non è che una storia che si racconta.

Parla di quando era al liceo e prendeva la vita con scanzonata leggerezza, dei suoi amici e di Adrian, il più ammirato da tutti. Di quando tutti aspettavano di essere liberati dal recinto della scuola nel pascolo della vita, per poi accorgersi che, in realtà, si è solo liberati in un recinto più grande. Di quando volevano vivere le passioni della letteratura: coraggio, amore, disperazione ed estasi, constatando poi però come il passare del tempo finisce per scambiarle con i meno eccitanti realismo e senso di responsabilità.

Adrian, togliendosi la vita, è rimasto giovane e non ha subito “la meschina pochezza dei compromessi della vita adulta”. Tony, invece,  è un uomo in pensione con alle spalle una vita senza infamia e senza lode. E ora Adrian ritorna con tutta la sua forza, attraverso il diario. E attraverso Veronica, la donna che lo ha lasciato per Adrian, e che ora irrompe nella sua vita trincerandosi dietro un muro di silenzio.

Perché? Cos’è successo davvero nella vite dei tre, prima del tragico evento? Il finale, seppur destabilizzante (e forse un po’ da soap opera) chiuderà il cerchio facendo vedere a Tony la sua intera esistenza, le sue scelte e l’impatto che hanno avuto sulla sua vita e quella degli altri con occhi completamente diversi.

Questo libro non è facile. È fatto per lasciare un segno profondo. Perché davanti a domande come “la mia vita è un accumulo di cose o è una crescita?”, una della problematiche che il suicida si è posto, si rischia di impantanarsi nel tentativo di fare bilanci azzardati su se stessi.

Lo scorrere del tempo, che passa e si trasforma, è certamente il tema centrale di questo libro. Tanto che l’inesorabile ticchettìo è percepito al punto che risulta davvero difficile scorrere le pagine senza sottolineare una frase, una parola, un concetto, per fissare la sua preziosità nella mente, prima che lo scorrere stesso della lettura trasformi gli innumerevoli spunti sul senso della vita in un ricordo modificabile e meno tangibile.

127 ore è il tempo trascorso nel fondo di un canyon da un uomo che decide di amputarsi il braccio per liberarsi dalla roccia che lo tiene prigioniero. La trama della storia realmente accaduta all’appassionato di montagna Aaron Ralston è tutta qui. Ma non è soltanto un racconto sullo spirito di sopravvivenza. È il punto culminante di una serie di comportamenti, decisioni e inavvertenze del protagonista, che intrecciandosi lo portano ad essere esattamente dov’è, bloccato in un crepaccio nello Utah.

Quando un masso traballante cade e inchioda il suo braccio destro contro la parete di un crepaccio, Aaron inizia a fare i conti con se stesso. Con gli attrezzi insufficienti a sua disposizione. Con la scaristà di acqua e cibo. Con il fatto di non aver detto a nessuno dove andava. Capisce che in quel guaio c’è finito da solo, perché è un solitario, un avventuriero, un uomo sfuggente, più a suo agio con la natura che non con la gente. La lontananza emotiva dalle persone a lui care è resa evidente da una serie di flashback, che oltre a variare e ritmare il racconto, mettono in scena le persone che ha abbandonato o deluso (come la sua ex ragazza), ma mai lui stesso, come a significare che nemmeno nei suoi pensieri riesce ad immaginarsi fuori dal canyon. Come se fosse prigioniero di se stesso.

Il regista Danny Boyle ha raccontato quest’agonia, poi vinta con un gesto estremo, con finezza ed empatia, scandendo il racconto con momenti talvolta tragici, talvolta quasi piacevoli, seppur incastonati in un contesto di disperazione, mantendendo il ritmo del racconto vivo e plusante. Come Aaron, che, in 127 ore, rinasce.

“Se tutta l’Africa” sembra una formula capace di identificare le condizioni, o gli ostacoli, al raggiungimento di una promessa. Un’Africa indipendente, forte, e possibilmente unita. Queste erano le aspirazioni nel continente nero negli anni della decolonizzazione. Ma la realtà era ben diversa. Divisioni tra tribù e tra Stati, debolezza dei primi sistemi politici, dipendenza economica dalla vecchia madrepatria, povertà e corruzione, sono solo alcune delle realtà descritte 50 anni fa dal giornalista polacco che “non era andato in Africa per cercare i diamanti o a caccia di elefanti”, bensì per scoprire ciò che accadeva in quegli anni carichi di aspettative, presto deluse. “Se tutta l’Africa” di Ryszard Kapuścińsky è una preziosa testimonianza di quell’epoca di rottura. Allo stesso tempo è una chiave di lettura per decifrare le radici della disfunzionalità africana. Parte dei problemi descritti in questi dieci racconti inediti si sono trascinate fino ad oggi, e perciò è un testo più che mai attuale per chi vuole capire l’origine delle piaghe che continuano ad affliggere il continente.